Demenza da SARS-CoV-2 e malattia di Alzheimer
GIOVANNI ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 12 giugno 2021.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
La pandemia da SARS-CoV-2, oltre a dare la
manifestazione clinica principale di malattia denominata COVID-19, ha portato
con sé altre nefaste sequele, e fra queste la sintomatologia da deficit
cognitivo marcato, persistente e progressivo è sempre più frequentemente
diagnosticata.
Inizialmente segnalata come complicanza rara, in
quanto la mortalità per cause cardio-respiratorie delle persone potenzialmente
affette era elevatissima, oggi è sempre più spesso diagnosticata come una vera
e propria demenza e richiede l’accertamento di un nesso di causalità con l’infezione
da SARS-CoV-2 e, in molti casi, la diagnosi differenziale con una
neurodegenerazione rispondente alle caratteristiche patogenetiche e
prognostiche della malattia di Alzheimer.
Nonostante qualche studio sia stato già condotto e molti
siano ancora in corso per la definizione dei meccanismi molecolari, non sono ancora
noti i processi che determinano lo sviluppo dei deficit cognitivi, né fino ad
oggi sono stati accertati elementi comuni con la patogenesi della malattia di Alzheimer.
Yadi Zhou e colleghi provenienti da vari istituti di
ricerca di Cleveland e dalla Cornell University hanno deciso di ricorrere ad
uno studio di network medicine per cercare di comprendere, almeno in
parte, i processi causali che portano la COVID-19 a invalidare le funzioni
cognitive, allo scopo di sviluppare interventi di prevenzione e terapia di
questa complicanza che, risolta la prognosi internistica quoad
vitam, rimane la più temibile.
(Zhou Y., et al., Network medicine links SARS-CoV-2/COVID-19 infection to brain
microvascular injury and neuroinflammation in dementia-like cognitive impairment.
Alzheimer’s Research &
Therapy 13 (1): 110 –
Epub ahead of print doi: 10.1186/s13195-021-00850-3, Jun 9, 2021).
La provenienza degli autori è la seguente: Genomic
Medicine Institute, Lerner Research Institute, Cleveland Clinic, Cleveland OH (USA);
Department of Molecular Medicine, Cleveland Clinic Lerner College of Medicine,
Case Western Reserve University, Cleveland OH (USA); Lou Ruvo
Center for Brain Health, Neurological Institute, Cleveland Clinic, Cleveland OH
(USA); Neurological Institute, Cleveland Clinic, Cleveland OH (USA); Department
of Molecular and Medical Genetics, Indiana University School of Medicine, Indianapolis,
IN (USA); Weill Institute for Cell and Molecular Biology, Cornell University,
Ithaca, NY (USA).
Si propone qui di seguito, in una
sintesi estrema, un’introduzione tratta da una monografia scritta in passato
per i membri della nostra società scientifica e presentata mediante vari brani
nella sezione “In Corso” del sito[1].
Nel 1906 il neuropatologo tedesco
Alois Alzheimer studia al microscopio preparati istologici ricavati da sezioni
sottili del cervello di una sua paziente affetta da una complessa e invalidante
malattia neuropsichica, caratterizzata da una grave forma di deterioramento
mentale ad insorgenza precoce ed andamento rapidamente ingravescente. Descrive
due tipi di lesioni che ricollegherà all’eziopatogenesi della malattia: le
placche e le alterazioni neurofibrillari. La pubblicazione di questi dati, nel
1907, avvierà la ricerca su quale sia il primum
movens patogenetico, le placche amiloidi o la degenerazione neurofibrillare[2].
All’originario lavoro di Alzheimer,
Perusini aggiunse nel 1909 tre nuove osservazioni anatomo-cliniche molto
dettagliate[3]
e i suoi studi negli anni successivi (1910-1911) consentirono la comprensione
di alcuni rilevanti aspetti clinici e patologici, così che la malattia detta in
Germania “morbo di Alzheimer”, divenne nota in Italia come “morbo di
Alzheimer-Perusini”. Il grande nosografista Kraepelin la ritenne una forma
grave e precoce di demenza senile, secondo il concetto di senilità precoce di
Fuller, anche se già nel 1910 le riconosceva autonomia nosografica costituendo
la nuova categoria diagnostica della malattia di Alzheimer[4].
Anche se l’identificazione di
questa nuova malattia da parte di Alois Alzheimer destò l’interesse di
neurologi e ricercatori dell’epoca, per molto tempo fu vista solo come una curiosità
medica perché rarissimamente diagnosticata. Per decenni, le ipotesi sulla sua
eziologia e le opinioni sulle caratteristiche della patologia e della clinica hanno
ispirato filoni di ricerca ed acceso dibattiti, senza però migliorare la conoscenza
e la comprensione dei processi alla base di questa grave ed inesorabile perdita
delle funzioni mentali e più in generale cerebrali, che termina con esito
infausto.
“Si può dire che il primo reale
progresso fu compiuto nel 1984, quando George G. Glenner
dell’Università della California a San Diego riuscì ad isolare dal materiale
amiloide delle placche un corto peptide, costituito da 40 o 42 aminoacidi, cui
si diede il nome di peptide β-amiloide (Aβ).
Poco tempo dopo quattro diversi
gruppi di ricerca sequenziarono il gene che codifica la proteina da cui il
peptide origina. Così come erano parse sorprendenti le piccole dimensioni del
peptide in grado di formare fibrille e accumuli di sostanza extracellulare,
sorpresero le grandi dimensioni della proteina codificata dal gene di recente
individuato. Il peptide beta-amiloide era un frammento di una macromolecola di
membrana cui si diede il nome di precursore del peptide beta amiloide o beta-amyloid precursor protein
o βAPP. […]
Nel 1991, studiando il DNA di una
famiglia con Alzheimer ad insorgenza precoce, un gruppo della St. Mary’s Hospital Medical School di
Londra localizzò il gene per la βAPP sul cromosoma 21 e dimostrò che la
mutazione puntiforme si verificava proprio nel frammento di DNA codificante il
polipeptide precursore. All’incirca in quello stesso periodo altri studi
indicavano che in famiglie in cui ricorreva la malattia di Alzheimer il
cromosoma 21 poteva essere portatore di un difetto. Questa correlazione era
molto suggestiva perché da tempo era noto che i soggetti affetti da sindrome di
Down o trisomia 21, quando vivono sufficientemente a lungo, invariabilmente
sviluppano i sintomi di una patologia simile all’Alzheimer.
L’idea che il peptide Aβ fosse
all’origine della cascata di eventi determinante la progressione della malattia
era ormai opinione dominante, nota come “teoria dell’amiloide”, e i dati
genetici sembravano confermarla in pieno. Ben presto si formò una vera e
propria scuola di pensiero che ebbe, ed ha tuttora, in Dennis Selkoe uno dei
maggiori esponenti. […]
Nel 1992 Allen Roses
sfidò l’ortodossia β-amiloide: annunciò di aver identificato un gene di
suscettibilità per lo sviluppo delle forme più frequenti, ad insorgenza
nell’età media e avanzata. Si trattava del gene per l’allele “ε4”
dell’apolipoproteina E (APOE), cioè una variante di una lipoproteina che
trasporta il colesterolo. […]
La teoria dell’amiloide sembrò
avere una conferma decisiva nel 1995 quando Peter H. St George Hyslop, con i suoi
collaboratori, clonò due geni cui diede il nome di presenilina 1 e presenilina 2.
Le alterazioni di questi geni erano state messe in relazione con una forma
della malattia estremamente aggressiva e ad insorgenza molto precoce, in cui la
sintomatologia talvolta esordiva già intorno ai 28 anni, divenendo presto molto
grave. […]
Nel 1998 Rudolph Tanzi, genetista
di Harvard, ritenne di aver identificato sul cromosoma 12, in un gene detto
A2M, un altro importante fattore di suscettibilità: la sua tesi era che questo
gene fosse in grado di determinare il tasso di produzione di β-amiloide da
parte dei neuroni. L’ipotesi fu respinta, non solo da coloro che dubitavano del
valore della ricerca sui geni di suscettibilità, ma dallo stesso Allen Roses, il quale aveva lavorato a quel locus del cromosoma
12, addirittura registrando un brevetto sull’A2M e, successivamente, si era
convinto della mancanza di un legame diretto con la patologia. […]
Il precursore della proteina
β-amiloide (βAPP) è sintetizzato da molte specie cellulari ed è una
proteina di membrana, la cui lunghezza varia da 695 a 770 aminoacidi. Le due
estremità idrofile della macromolecola sporgono l’una nel citoplasma e l’altra,
la più lunga, nello spazio extracellulare. Da quest’ultima proviene il peptide
beta-amiloide.
La funzione fisiologica non è nota[5]
ma si sa che va incontro ad un processo di scissione enzimatica secondo due
diverse modalità. […]
La prima modalità prevede una tappa catalizzata da un enzima detto α-secretasi, in grado di scindere
dal precursore un peptide che sarà attaccato da un secondo enzima, la γ-secretasi, la cui azione dà
origine ad un frammento fisiologico, definito p3.
Questa modalità, ossia la scissione
mediante α-secretasi/γ-secretasi,
dà sempre luogo ad un peptide non patogeno.
La seconda modalità differisce per l’enzima che interviene nella prima
tappa, in questo caso è la β-secretasi:
uno dei frammenti prodotti, costituito da 99 aminoacidi, il C99-βAPP,
sottoposto all’azione della γ-secretasi dà luogo alla formazione del peptide β-amiloide[6].
La successione beta-secretasi/gamma secretasi genera per il 90% molecole di 40
aminoacidi e, per la parte rimanente, peptidi di 42 aminoacidi. Solo questa
piccola frazione sembra in grado di innescare la successione di eventi che
determina la formazione delle placche”[7].
Queste nozioni costituiscono ormai una base consolidata
delle conoscenze patologiche sul gravissimo e ancora inguaribile processo neurodegenerativo.
Riportiamo ora, qui di seguito, elementi di più recente acquisizione tratti dall’introduzione
a uno studio presentato lo scorso anno[8].
La malattia di Alzheimer, la più comune[9] e grave demenza neurodegenerativa,
costituisce una categoria nosografica definita in base ad elementi patogenetici
e clinici comuni, ma in realtà costituita da forme diverse per eziologia,
che può essere esclusivamente genetica (forme familiari) o multifattoriale e
prevalentemente indeterminata (forme sporadiche); per esordio, che può
essere precoce, presenile[10], nell’età media della vita oppure in
età senile o più spesso nella tarda senilità; e per fisiopatologia: può
presentare entrambi i contrassegni istopatologici descritti da Alzheimer e
Perusini, ossia placche amiloidi neuritiche e grovigli neurofibrillari intraneuronici, oppure uno solo dei due, presentandosi come
tipo con placche soltanto (plaque only type) o come
taupatia senza placche evidenti associata a demenza[11].
La maggior parte dei ricercatori che ritiene irrilevante la differenza
causale di fronte ad una patogenesi pressoché identica in tutte le forme
suppone che, nella sequenza di eventi patogenetici, si possa identificare una
tappa da bloccare per ottenere l’arresto della progressione in tutti i casi; fra
coloro che considerano rilevante il primum movens etiologico, vi sono
ricercatori che attribuiscono al rapporto biochimico fra evento causale e
innesco della patogenesi un valore di conoscenza chiave per giungere a
trattamenti (ed eventuali programmi di prevenzione) specifici per le singole
forme.
In ogni caso, lo studio della genetica è importante perché, anche se le
forme eredo-familiari costituiscono una esigua minoranza, anche in quelle ad
eziologia ignota si suppone un ruolo non irrilevante del genotipo per lo
sviluppo della malattia. Inoltre, la ricerca condotta soprattutto negli ultimi
decenni sulle cause genetiche delle anomalie molecolari riscontrate, pur non
essendo stata ancora decisiva per la comprensione dell’origine della maggioranza
dei casi, ha fornito dati e nozioni di notevole interesse. Un esempio è l’identificazione
da parte di St. George-Hyslop e colleghi, in pazienti affetti da forme
ereditarie della malattia, di geni codificanti versioni alterate della APP (amyloid
precursor protein) localizzati sul cromosoma 21
accanto al gene βA. Questa scoperta ha fornito una spiegazione per le
alterazioni alzheimeriane – in passato interpretate
come invecchiamento precoce – che si rilevano nel cervello di tutti gli affetti
da sindrome di Down o trisomia 21 che vivano oltre i 28 anni: avendo tre copie
del cromosoma 21, producono amiloide in eccesso.
Anche se la scoperta ha consentito di spiegare quel dato patologico
interpretato come segno di invecchiamento precocissimo del cervello nella
sindrome di Down, rende conto della probabile causa solo di una piccolissima
frazione di casi eredofamiliari di malattia di Alzheimer
che, a loro volta, costituiscono una piccola parte del totale. In altre stirpi
familiari studiate per la presenza di casi ad ogni generazione, ereditati
verosimilmente come un carattere mendeliano autosomico dominante, sono state
identificate rare mutazioni nel gene della presenilina 1 (localizzato sul
cromosoma 14) responsabili in alcuni studi fino al 50% dei casi familiari, e
della presenilina 2 (localizzato sul cromosoma 1) responsabile di una quota
degli altri casi ereditari[12].
La presenza di amiloide aberrante da sola non è in grado nel resto della
popolazione di causare la malattia neurodegenerativa, così si sono studiati i
geni associati quali fattori di rischio. Il primo ad essere scoperto fu “Apo E”[13], un regolatore del metabolismo
lipidico che ha un’affinità per la β-amiloide delle placche neuritiche
della malattia di Alzheimer e si è rivelato in grado di modificare il rischio
di acquisire la malattia di Alzheimer. In particolare, fra le varie isoforme
della lipoproteina, la presenza di E4 e del suo corrispondente allele ε4 sul
cromosoma 19 è associata ad una probabilità tripla di sviluppare la malattia.
Il possesso di due alleli ε4 sembra dare certezza della malattia a coloro
che superano gli ottanta anni. L’allele ε4 modifica anche l’età di esordio
di alcune delle forme familiari della malattia. Vari studi hanno dimostrato
che, all’opposto, l’allele ε2 è poco rappresentato nelle persone affette
da malattia di Alzheimer.
Anche se decisamente più raro delle varianti di Apo
E, un polimorfismo in TREM2 conferisce uguale probabilità di sviluppare la
malattia. Nelle forme sporadiche, questo polimorfismo è responsabile di un
difetto di fagocitosi dell’amiloide che avviene nel normale ciclo fisiologico,
contribuendo all’accumulo. Altri meccanismi ipotizzati per la partecipazione delle
varianti di questo gene alla patogenesi non hanno ancora ricevuto conferma sperimentale.
Un’altra variazione genica, implicata sicuramente in
forme familiari della malattia di Alzheimer, è stata registrata presso il sito
dell’ubiquilina 1, cioè UBQLN1 codificante una
proteina che interagisce con PS1 e PS2, oltre a partecipare alla degradazione
proteasomica.
L’importanza dello studio della genetica si può desumere
dagli importanti elementi di conoscenza che sono stati ottenuti dall’analisi di
interi alberi genealogici di pazienti affetti dalla demenza neurodegenerativa.
Nei cenni storici sulle origini di questa patologia si cita sempre il caso
di Auguste Deter, la paziente che morì a soli 55 anni
e dal cui cervello Alois Alzheimer prelevò i campioni sui quali scoprì placche
amiloidi e ammassi neurofibrillari, ma non si riporta di un secondo caso, pubblicato
dal neurologo tedesco col nome di Johann F. e caratterizzato dall’assenza di
degenerazione neurofibrillare, cioè il primo paziente affetto dal plaque only type[14]. Nel suo cervello, oltre ai segni
generici di encefalopatia atrofica, si rilevavano solo gli accumuli
macroscopici di amiloide extracellulare, denominati da Alzheimer placche
senili, secondo la terminologia anatomopatologica dell’epoca. La ricorrenza
della malattia nella famiglia di Johann aveva indotto a supporre già a quell’epoca
una causa genetica. In questo secolo, quando i ricercatori impegnati nella
ricerca del primum movens causale della malattia si dividevano in due
fazioni, la prima sostenitrice della “teoria della β-amiloide” con capofila
Dennis Selkoe e la seconda sostenitrice della “teoria della tau”, rappresentata
dalla scuola di Rudolf Tanzi, si decise di andare alla ricerca dei discendenti
Johann per verificare se fra loro vi fossero ammalati di demenza neurodegenerativa
e studiarne esaustivamente il profilo biomolecolare.
In estrema sintesi, i sostenitori della “teoria della β-amiloide”
ritenevano che i peptidi βA amiloidogenici,
ossia quelli generati dalla scissione della γ-secretasi con una lunghezza
uguale o superiore a 42 aminoacidi, innescassero tutte le catene di eventi culminanti
in degenerazione, apoptosi e necrosi; i sostenitori della “teoria della tau” ritenevano
che l’iperfosforilazione della proteina associata ai microtubuli tau fosse
responsabile della sequenza di eventi che porta a morte i neuroni e
consideravano le placche amiloidi delle semplici “pietre tombali” formate nelle
sedi di distruzione del tessuto nervoso. Per i sostenitori di questa seconda
tesi, i casi come quello di Johann, in cui vi erano solo placche senza ammassi
neurofibrillari, erano dovuti a una causa da scoprire, ma sempre intraneuronica.
Klunemann e colleghi afferenti alla Clinica
Psichiatrica dell’Università di Regensburg (Germania) riuscirono a rintracciare
i discendenti del secondo paziente di Alzheimer, ne studiarono il profilo
genetico secondo le acquisizioni più recenti di quegli anni, ricostruirono l’albero
genealogico e poi chiesero l’aiuto di St. George-Hyslop[15]. I ricercatori fecero un lavoro straordinario:
grazie a numerose tracce documentali reperite con l’aiuto delle famiglie dei pazienti,
riuscirono a risalire lungo la linea degli antenati fino al 1670, ed
elaborarono un fedele albero delle parentele che al 2007 contava 1403
discendenti. I quattro discendenti affetti da demenza all’epoca dello studio,
la avevano ereditata come un carattere mendeliano semplice autosomico
dominante. Klunemann, St. George-Hyslop e
colleghi testarono i “geni di rischio dominanti” allora noti, ossia APP, PS1,
PS2, PRNP e BRI, senza riuscire a trovare un allele già identificato come
patologico[16]. Anche se questo studio non
identificò la causa genetica dell’Alzheimer di quella stirpe, contribuì alla
demolizione della dicotomia β-amiloide/tau. Infatti, se il primum
movens sono i peptidi βA, in grado di innescare reazioni che portano
nei neuroni all’iperfosforilazione della tau con conseguente degenerazione fibrillare
seguita da distruzione degli assoni e poi del corpo cellulare neuronico, come e
perché avviene la distruzione neuronica con gli stessi esiti clinici senza la
distruzione della tau? La conclusione ipotetica della nostra scuola
neuroscientifica è che ci si trova di fronte a patologie diverse che non
differiscono solo nell’innesco eziologico ma anche, sia pure in parte, nella
patogenesi.
Per dirimere queste questioni sarà necessario scoprire
i meccanismi molecolari che mediano gli effetti dei molteplici fattori causali
e, visto che le alterazioni molecolari e i processi patologici finora esaminati
si sono rivelati quanto meno insufficienti ad orientare delle risposte, si è
proceduto attraverso analisi del trascrittoma, i cui risultati hanno
suggerito nuovi progetti di ricerca.
Ritorniamo ora allo studio qui recensito.
Gli autori dello studio hanno condotto una
comparazione “omica” multimodale basata su reti della
malattia da coronavirus SARS-CoV-2 detta COVID-19 con le sue complicanze
neurologiche. Hanno costruito l’interattoma SARS-CoV-2–ospite
da saggi di interazioni proteina-proteina e risultati di saggi genetici basati
su CRISPR-Cas9 e hanno comparato le interazioni basate su rete con quelle di
manifestazioni neurologiche conosciute usando misure di prossimità di rete.
Hanno poi indagato i profili trascrittomici (incluso
singola cellula/sequenziamento RNA del nucleo) dei geni marker della
malattia di Alzheimer da pazienti infettati da SARS-CoV-2, così come la
prevalenza di fattori di entrata del virus nel cervello di pazienti affetti dalla
neurodegenerazione alzheimeriana non infettati dal coronavirus.
I risultati, per i cui dettagli si rinvia al testo
integrale dell’articolo originale, suggeriscono una sovrapposizione in termini
di meccanismi tra COVID-19 ed Alzheimer centrata su due elementi: 1) neuroinfiammazione;
2) danno microvascolare.
Questi elementi forniscono un nuovo elemento
conoscitivo per la comprensione delle manifestazioni neurologiche e
neuropsichiche associate a COVID-19 e costituiscono una guida per lo sviluppo
di strategie di prevenzione e trattamento di tali complicanze; sebbene,
ovviamente, dovranno essere indagati e scoperti i meccanismi molecolari responsabili
di tali processi e il preciso legame molecolare tra le due condizioni
patologiche.
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella
Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del
sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni
Rossi
BM&L-12 giugno 2021
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Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Perrella G., La Malattia di
Alzheimer – un’introduzione.
BM&L-Italia, Firenze 2004.
[2] Alzheimer A., Ueber eigenartige Erkrankung der Hirnrinden, Allg. Ztschr. Far
Psychiat. 1907.
[3]
Perusini G., Ueber klinisch und histologisch eigenartige psychische Erkrankungen des spateren Lebensalters, Hist.
und Histopathol. Arb. Nissl. 3: 297, 1910.
[4]
Cfr. Kraepelin E., Lehrbuch der Psychiatrie, Barth, Leipzig 1912.
[5] Numerosi studi hanno fornito nel
frattempo (il testo monografico è del 2004) evidenze che indicano ruoli fisiologici
della βAPP; di questi studi si trovano recensioni nelle “Note e Notizie”
di questi anni.
[6] Su questa base si impiegano in
terapia gli inibitori di BACE (Beta-secretase cleaving enzyme).
[7] Perrella G., op. cit.
[8] Note e Notizie 28-11-20 Nella
malattia di Alzheimer deregolazione di geni e isoforme.
[9] La prevalenza di 10.800 su
100.000 fra gli ultra ottantenni è stima ricorrente in vari studi condotti in
tutto il mondo.
[10] In rare forme familiari sono
stati descritti casi con esordio in età giovanile. Nei criteri diagnostici si
considera un’età sempre superiore ai 40 anni.
[11] L’Adams e Victor’s,
ossia l’attuale gold standard in
neurologia clinica, ribadendo che è superata la distinzione fra demenza senile
e malattia di Alzheimer (classificata in passato come demenza presenile
perché la prima paziente di Alois Alzheimer aveva solo 51 anni all’esordio, e
perché fino a qualche decennio fa si diagnosticavano come malattia di Alzheimer
solo i casi a insorgenza precoce) propone di considerare related
but separable le varie
forme eredofamiliari finora accertate e descritte (Adams
e Victor’s Principles of Neurology by Allan H. Ropper, Martin A. Samuels, Joshua
Klein, 10th edition, p. 1063, McGraw-Hill,
New York 2014). Non tutte le volte che si rileva un marcato declino cognitivo
in età avanzata, con punteggi dei test corrispondenti alle prestazioni dei
pazienti affetti dalla grave patologia neurodegenerativa, ci troviamo di fronte
alla malattia di Alzheimer: il trattamento cognitivo con CACR (sistema
computerizzato ideato dai coniugi Gianutsos con Luciano Lugeschi al Bellevue
Hospital), nuove versioni o sistemi equivalenti, determina miglioramento e
talvolta totale recupero nei casi non dovuti a neurodegenerazione alzheimeriana;
presentazioni cliniche indistinguibili da quella della malattia di Alzheimer
possono presentare la paralisi sopranucleare progressiva,
la malattia a corpi di Lewy, la degenerazione cortico-basale, la malattia di
Pick (ossia la degenerazione lobare fronto-temporale)
e altre patologie neurodegenerative non alzheimeriane.
[12]
Bateman R. J., et al. Clinical and biomarker changes in dominantly inherited
Alzheimer disease. New
England Journal of Medicine 367: 367, 2012.
[13] Il massimo studioso di questo
fattore di rischio è stato Allen Roses, ai cui studi
si rimanda per la dettagliata documentazione del percorso di ricerca che ha
condotto alle conoscenze attuali sul ruolo di Apo E ε4.
[14] Costituisce uno specifico
sottogruppo nella classificazione internazionale più spesso adottata.
[15] Note e Notizie 17-03-07 I
discendenti di Johann paziente di Alzheimer.
[16] Cfr. Note e Notizie 17-03-07
I discendenti di Johann paziente di Alzheimer.